mercoledì 8 giugno 2011

Miss Burkina. Una storia d'Africa

In occasione del primo anniversario dell'associazione AFRICASA, pubblico questo racconto scritto per l'occasione in modo da condividere in questa giornata un'Emozione vissuta in prima persona, uno dei tanti aneddoti d'Africa. Buona lettura. (Toni Bocale - Associazione AFRICASA onlus)

Che sia Febbraio od Agosto non fa molta differenza, il Gourmaché e la sua periferia Ovest è un inferno caldo per uno come me, solo la speranza che qualche nuvola laggiù abbia intenzione di cambiare direzione e di scaricare tutta la sua acqua sopra la mia testa, in questo giorno di metà Estate, mi da un pò di conforto. Ma il periodo delle piogge oggi ha già segnato la sua presenza quotidiana, ha sbrigato la pratica di primo mattino per avere poi la giornata libera, limitandosi a una fugace presenza sul cielo di Ougadougou, il tempo necessario di rovesciare una pioggia torrenziale fino a rendere la stazione dei pullmann una piscina di acqua rossa fino alle caviglie, rendendo il carico dei bagagli sul pullman per Tenkodogo una piacevole e imprevista doccia mattutina. Quindi non mi aspetto poi tanta collaborazione da quelle nuvole laggiù. Continuo a sollevare polvere con le mie infradito per raggiungere la strada principale di Tenko che porta al confine con il Togo più a sud, visto la temperatura di mezzogiorno continuo a camminare a petto nudo con lo zaino da 60 litri sulle spalle, soltanto le trecce fatte qualche giorno prima mi danno l'illusione del fresco. Il resto della carovana nomade è arrangiata all'occorrenza: Crive viaggia con il suo tamburo artigianale preso a Bobo-Dioulasso, non si abbandona mai da lui rifiutando di caricarlo sul tetto dei taxi-brousse per paura di rovinarlo (penso che abbia raggiunto un rapporto feticistico con quel tamburo, ma evito di toccare questo tasto), continua a marciare con il tamburo su una spalla, ogni tanto lo alterna con l'altra, come se fosse un contadino che ritorna dai campi con la sua vanga. Ma invece di intonare canti di campagna, dal nulla parla in barese. Pochi credono che sia belga, forse neanche lui. Claus invece sembra un rivoluzionario hippy: stivali infangati e turbante artigianale in testa, grandi occhiali da sole e camicia burkinanbé a trame psichedeliche donata da Koné qualche giorno prima dall'altra parte del Burkina Faso. Solo un'ustione bendata all'occorrenza mi ricorda, vedendo la sua gamba, che è meglio continuare a piedi invece che affittare delle moto. Un incidente per questa settimana mi basta e avanza, se poi sono riuscito a tamponare l'unica moto nel raggio di chilometri nella foresta subtropicale non è una prova a mio vantaggio. Se su quella moto c'erano Madou e Alessia poi mi porta a scegliere un altro mezzo di trasporto che non sia così invasivo sul fisico dei miei compagni di viaggio. Alessia e Anna invece sono due guerriere su questa strada polverosa, la prima non ha nulla da invidiare alle donne africane: portamento dritto e passo sicuro, soltanto della crema da sole sul naso fa saltare agli occhi la differenza. Anna invece risplende al sole con il suo completo bianco, prima di partire gli avevo detto con aria saccente da marinaio che ha girato il mondo, che non esiste una profilassi sicura contro la malaria, ma che vestirsi di bianco allontana le zanzare in Africa. Non so se questa è una leggenda metropolitana o un'altro esempio del fatalismo africano sul tema delle malattie sentito in qualche viaggio, ma ricordo che ad un tratto si è sollevata una discussione e non riuscivo più a uscirne fuori da questo cul de sac, era come se ad un tratto tutto il mondo girasse intorno a questo perno. Devo essere stato convincente se è partita soltanto con vestiti bianchi, praticamente come vedere una fisioterapista che viaggia in Africa.

Mesi dopo, costretto in un letto d'ospedale a guarire dal solito souvenir d'Afrique, vedendo "L'armata Brancaleone" di Monicelli sul mio portatile, mi è tornata alla mente quella calda giornata d'Agosto, e quella buffa missione che dovevamo compiere per conto della felicità.

E' la seconda volta che mi ritrovo da questa parte del Burkina Faso, e questo a distanza di soli sei mesi dalla mia prima volta in questa terra. Sei mesi da queste parti sono come una notte in Europa, tutto è assolutamente identico a come l'avevo lasciato l'ultima volta, in questa zona orientale della nazione che si affaccia ai confini del Togo, del Benin e del Niger, confini a volte inviolabili per una nazione che ha visto la sua Primavera con Sankara, e che è ritornata in breve Tempo in quel cono d'ombra del diritto umano in cui si trova con questa dittatura. Se non avessi viaggiato con i mezzi locali non avrei mai assaporato le infinite differenze che ci sono tra la parte occidentale verde e pulsante di ritmo di Bobo a quella più conservatrice e riservata di queste terre, passando per la vivace Ouaga e le distese desertiche del nord. La differenza maggiore non è il colore che cambia tutto intorno, passando dal verde delle foreste e del nero delle falesie fino a questo giallo di una desertificazione imminente, che anche qui a Est si riflette sotto un cielo profondo e celeste. E non è neanche il suono delle percussioni che ritma cadenzato nei laboratori artigianali della capitale e si ripete come un ossesso fino a giù verso il Ghana, e che qui lascia lo spazio al silenzio della contemplazione e al suono dei braccialetti delle donne Peul che danno il tempo ai loro canti che dicono capaci di far camminare anche i cadaveri, in modo che raggiungano la terra natale per la sepoltura. E' l'interazione con le persone la vera differenza, qui c'è un'altro Burkina, un Burkina che ti osserva in silenzio e che tu osservi, una cultura riservata che affascina in maniera disarmante in cui ci si muove con cautela. Qui il primo rapporto visivo è un incrocio di sguardi che mai in nessuna altra parte dell'Africa ho sentito così carico di significato. Sarà la vicinanza del "Grande nulla" (così i Tuareg chiamano il Sahara) o la lontananza dai centri di interesse produttivo o turistico incentrati soprattutto nel Centro-Ovest del territorio nazionale, o sarà ancora che questa zona è sempre stata un crocevia di passaggio di popoli nomadi, una zona franca tra il Sahel e il regno del Dahomey, tra la zona dei fiumi e l'arido Niger. Sarà per questo motivo che le parole servono poco da queste parti e che ci si capisce da uno sguardo. E di uno sguardo ricordo che me ne innamorai, e non soltanto io.

Ma per spiegare questo incontro è il caso di ritornare indietro nel Tempo, e neanche di tanto, alla prima volta che ho messo piede in Burkina Faso in quei giorni di Febbraio da poco passati, attraversandolo da Ovest a Est per raggiungere il Benin e portare a termine un viaggio via terra di materiale umanitario iniziato dall'Italia e che, in quel momento del viaggio, era già pieno di aneddoti e incontri, di quelle storie e di quelle persone che si incontrano soltanto sulle strade africane, nelle interminabili dogane e nei pernottamenti notturni, che rendono esperienze come queste uniche per l'intreccio umano che si crea. A quel punto del viaggio ci eravamo già lasciati alle spalle cinque stati africani e almeno 7.000 chilometri di strada, il gruppo era provato da questa traversata, più per i suoi ritmi rallystici che per l'impatto con il posto, ma il morale era buono salvo qualche litigio da nervoso che era in previsione di risolversi da li a poco, soprattutto perché l'arrivo al progetto per la consegna del materiale era distante soltanto due giorni di viaggio e questo faceva bene all'umore. Ma sarà anche per il fatto che la dogana con il Togo, una delle ultime, era prevista in giornata. Era il primo viaggio via terra per tutti quanti, un gruppo che si è formato nei mesi prima e che si è conosciuto meglio durante quello strano mese, che con il proseguo del tempo avrebbe preso direzioni diverse, fortificandosi e allontanandosi in maniera non prevedibile, per poi riavvicinarsi ricordando avvenimenti e incontri in Africa. Era un viaggio personale dove ognuno di noi ha avuto la possibilità di scoprire un'Africa diversa da quella proposta e raccontata, conoscendola in un Marocco ricco di arte e incanto, ma duro e tremendamente inospitale nel suo sud militarizzato, passando per il deserto mauritano fino ai primi incontri con la cultura nera in Senegal continuando nel selvaggio Mali, fino a entrare in Burkina Faso e lasciare la N4 a Koupela dirigendosi verso sud ed il confine togolese. Era il primo pomeriggio quando ci fermammo a mangiare a Tenkodogo parcheggiando le auto sulla piazza della chiesa e dirigendoci verso un gruppo di persone intente a pranzare in un classico chiosco africano, fatto tutto in legno e lamiera che non mi sorprenderei facesse parte di qualche pullman parcheggiato dietro nella fermata della gare routiere. I chioschi africani sono delle immagine stupende d'improvvisazione e dignità, posti brulicanti di vita e di musica dove sulle pareti appare sempre qualche poster di calciatore africano che ha trovato il successo in Europa, quasi come un monito per tutti che con la volontà si può uscirne fuori. La volontà ma unita al talento, una caratteristica che a nessun africano manca, visto che ogni singola persona è come se avesse capito cosa sappia fare nella sua vita, ogni persona ha un talento per qualcosa e a quello si attacca tenacemente diventando incredibilmente bravo in ciò fino a vivere di quello con immensa dignità e senza mai lamentarsi, che sia lavorare il legno o mercanteggiare, cucinare o ridare vita a motori che da queste parti sarebbero già rottamati. Ogni singola persona è cosciente del proprio talento, ogni persona sa esattamente quello che deve fare e in questo contesto si crea quello spirito comunitario che riesce a rendere vivo anche il più piccolo villaggio sperduto nella brousse.

Ma quel chiosco era diverso dagli altri, non c'era musica ne poster attaccati, l'unica melodia che riecheggiava nell'aria era lo sfrivolare della cipolla nell'olio negli istanti in cui qualche pullman non partiva dalla stazione coprendo tutto lo spazio sonoro circostante di un latrato degno di un battello. Il chiosco era gestito da due donne e questo rendeva superflua ogni radio o canzone, il continuo scambio di battute dei clienti e le fulminanti risposte della Mami del posto dietro al bancone, tutte anticipate e concluse da una sua sonora risata, era ciò di più divertente che si poteva seguire. Naturalmente parlavano una lingua che non era francese ma il significato era evidente, per quanti clienti ci provassero l'ultima parola spettava sempre a lei, che senza mai arroganza, chiudeva il discorso rendendo gli assalti degli avventori inutili. Non c'è niente da fare, le donne li sono di un'altro stampo, trovi certe femmine capaci di portare avanti una famiglia intera allargata all'inverosimile, di lavorare ai mercati con un figlio sulla schiena e un'altro sottobraccio, di risolvere le infinite beghe che i mariti lasciano in giro, senza mai perdere quella femminilità che le contraddistingue e che riconosci in un semplice sguardo, quella forza fisica che nasce da dentro e che le rendono cosi portatrici di Vita. Le donne in Africa sono un monumento alla voglia di Vivere.

Ero al bancone ad assistere estasiato a questo brulicare tipico di tutto quello che c'è intorno a una gare routiere, che in questi posti sperduti sono la partenza e l'arrivo di viaggi indescrivibili, spostando l'attenzione dal piazzale brulicante di commercio a questo microcosmo che si era intanto sviluppato sotto questo chiosco, con il siparietto degli avventori che incassavano colpo dopo colpo dalla Mami senza mai arrendersi, il gruppo di bambini di strada che si avvicina scoprendo che, da queste parti del Burkina, di facce bianche non se ne vedono spesso. La gente, già riservata per natura, ci osserva e sono per primi i bambini a rompere il ghiaccio, improvvisando mosse da rude boys per farci capire chi nel gruppo è il capo, ma svelando il fatto che sono comunque bambini in cerca di attenzione e di affetto, ognuno intento a mostrare quanto talento abbia, chi nel ballare, chi nell'atteggiarsi a capo, chi vendendo materiale comune, chiedendo che questo talento sia retribuito con qualche moneta. Ero lì con gli altri, Luca e Fre stavano scattando fotografie, rendendo così il chiosco un set fotografico improvvisato dove, ognuno dei bambini, voleva essere il centro del loro obiettivo manifestando ancora quel bisogno di attenzione che è un diritto negato troppo spesso all'infanzia africana. Claudione era distante a sbollire da un'arrabbiatura momentanea e in cerca di un pò di riservatezza che, per Natura stessa di questo viaggio e dove ci trovavamo, era impossibile da ottenere. Lo svizzero continuava intanto con il suo show di battute che riuscivano a infilarsi tranquillamente nel discorso tra gli avventori, creando un dialogo parallelo in lingue che non hanno niente in comune ma che, incredibilmente, si incastravano perfettamente creando l'ilarità generale, da tutte e due le parti. Una di quelle scene da teatro del paradosso, e di queste scene l'Africa è il palcoscenico naturale.

Il menù del chiosco non offriva tanta scelta, c'era un solo piatto a disposizione e, dall'odore che c'era nell'aria di cipolla e frittata, penso che quel momento era il punto della giornata in cui il chiosco sfornava le maggiori porzioni. Ordiniamo cinque omelette su un letto di insalata, accompagnata da una bibita ghiacciata, praticamente come giocare a roulette russa con il cagotto, dove nel tamburo della pistola invece di proiettili ci sono uova e cipolle. E nel momento in cui Claus chiama l'altra ragazza per ordinare, allora sempre girata di spalle a tagliare le cipolle, in quel preciso momento tutto si ferma, ogni singola scena perde d'importanza, e dal tono di voce di Claus mi rendo conto che anche lui è completamente perso in quello sguardo.

Aveva i capelli intrecciati con un sottile filo di ferro che rendeva il suo volto incredibilmente espressivo, uno sorriso serrato e gli occhi che si alzavano soltanto in rare occasioni dal bancone. Si muoveva come se fosse nell'acqua e con grazia evitava le braccia della sua collega in quello spazio ristretto, come se prevedeva i suoi movimenti, visto che, al contrario di lei, condiva ogni suo discorso con una gestualità eccessiva. Era li ma era come se fosse altrove, non parlava e non rispondeva a nessuna domanda, se riteneva che la domanda posta era degna di una risposta allora sollevava per un attimo lo sguardo, ti fissava e sorrideva appena, prima di nuotare in altre direzioni. Era una di quelle donne capaci di non farti capire assolutamente niente, che quando pensi che è lontanissima, soltanto con l'accenno di un sorriso, ti riportano a un passo da lei. Era in assoluto la ragazza più enigmatica che abbia mai visto, così silenziosa e riservata da renderla completamente diversa da tutte le altre donne Africane. Era la Mami allora a rispondere per lei dicendo che era timida, soprattutto con chi non è del posto, e il suo vocione ricco di risate rendeva ancora più affascinante quel suo silenzio e quegli sguardi che si alzavano dal bancone a confermare che quello era il suo modo di comunicare con il Mondo. La Mami ci deve aver preso in simpatia e, dalla direzione dello sguardo suo e dei clienti, devo intendere che nella loro lingua stiano parlando di noi. Andiamo via strappando a lei, questa sirena senza nome, la possibilità di farle una foto. Glielo chiediamo capendo di usare tatto e lei sembra per la prima volta parlarci, ma poi fugge con lo sguardo verso la sua collega e ride dandoci di nuovo le spalle. Per la prima volta ride e, girandosi ancora verso di noi, con un movimento impercettibile della testa fa cenno di si. Dopodiché sparisce via dietro al chiosco come se non riuscisse più a tenere per sè l'Emozione. Rivedo la foto che Luca gli ha scattato, ricerco quel suo sorriso ma nel chiosco non c'è più, soltanto l'ultima, forse la più fragorosa risata della Mami, ci rende tutti complici di un singolo istante di Emozione. Ci salutiamo , era ora di continuare verso il Togo, e ci allontaniamo da questo chiosco e da un'altra esperienza di Vita incredibile per quanto semplice.

Ritornati in Italia era il momento di mettere in ordine tutto quello che era successo in quel mese così folle, un mese iniziato con il freddo e terminato con temperature tropicali, per poi ritornare nel tempo di un volo intercontinentale di nuovo nell'Inverno, giorno dopo giorno in viaggio sentendo dentro di sè cambiare le stagioni al ritmo di una ogni dieci giorni, scendendo a sud e sentendo che il Tempo, come lo Spazio intorno, cambia e si dilata fino a diventare immenso come nel deserto. Progetti e realtà incontrate in quel viaggio, centinaia di incontri con la gente del posto, emozioni uniche ognuna degna di un racconto a parte. E poi le difficoltà da superare e la consapevolezza di essere parte di un insieme molto più grande di quello che soltanto si pensava, pensiero che ha portato a essere responsabili delle proprie scelte e a fondare l'associazione al ritorno, il quel giorno di Giugno in cui oggi si festeggia il primo anniversario, per continuare a creare dei legami forti intervenendo in una realtà difficile ma unica nel suo genere. Il potere delle conseguenza è qualcosa che, se utilizzato bene, è una forza dirompente e che può contagiare persone le cui Vite mai prima era prevedibile che si incontrassero, donando a ognuno dei soggetti qualcosa che prima mancava e avvicinandoli ancora di più in questo legame.

E per descrivere e condividere queste Emozioni e queste idee, che sono state la base di quella che è adesso l'associazione, al rientro da quel viaggio, e ancora prima di fondarla, portavamo in giro una mostra con delle splendide foto scattate da Luca e Fre, istantanee uniche che il più delle volte lasciavano spazio a discorsi con la gente che si soffermava a vederle, che con un trasporto pari a quello con cui si ricorda un Amore della gioventù, spaziavano sugli accordi delle sensazioni sfiorando ricordi che, soltanto a evocarli ritornavano vivi. E tra quelle foto c'era anche la sua. Non conoscendo il suo nome per tutti noi lei era Miss Burkina, il suo fascino era tale che avevamo deciso di elevarla a rappresentanza di tutta la sua nazione, tenevamo per la sua foto una cura e un'attenzione pari a una reliquia ed, ad ogni persona che si fermava, accennavamo al nostro incontro andando a toccare certe frequenze nel discorso se la persona di fronte era incline ad ascoltarle. Scegliemmo anche una cornice azzurra, lo stesso colore di quel cielo nel giorno in cui ci fermammo a Tenkodogo, lo stesso di quando, sei mesi dopo mi ritrovai ancora in viaggio a piedi verso la gare routiere dopo che il pullman che mi ha portato da Ouaga insieme ai miei compagni di viaggio, naturalmente ci ha lasciato nella stazione dei pullman più lontana.

Sei mesi dopo quindi ero ancora lì, di quel gruppo di Febbraio soltanto Claus ha ripercorso quella strada, soltanto lui sapeva chi c'era in quel chiosco. In Burkina c'ero per un altro motivo, ero diretto con gli altri verso l'estremo est, a Diapaga, a vistare un'associazione conosciuta in Italia e cercare di capire le tecniche del loro successo per poi riproporlo nell'associazione appena nata. Dopo il Burkina le altre tappe erano in Benin e il ritorno in Togo per portare avanti dei progetti intavolati sei mesi prima durante il primo viaggio.

Quando decisi di partire per la volta del Burkina per visitare l'associazione a Diapaga, con la faccia immersa nella cartina Michelin 741 (con ancora i buchi e gli strappi del precedente viaggio via terra), scorrendo il dito sopra di essa per cercare uno dei posti più sperduti di quella nazione, mi sono reso conto che Tenkodogo non distava molto, con una deviazione di qualche centinaio di chilometri verso sud l'avremmo raggiunta in mezza giornata di viaggio per ritornare di nuovo a quel chiosco. Mi sono accorto che il viaggiare con mezzi locali, e a ritmi locali, permette di comprendere con più facilità una mentalità che è affascinante e complessa allo stesso modo, l'unico modo per cooperare con una realtà locale e immergersi in essa nella vita quotidiana, quindi, per quanto sia la stessa strada, questi due viaggi sono risultati completamente diversi, e mi piace pensare che una delle cose comuni sia il profumo delle cipolle e delle uova che, in questa occasione come allora, è lo stesso ritrovandomi seduto a quel bancone. Tutto era perfettamente uguale, guardo Claus unico rappresentante del gruppo del viaggio precedente, e ridiamo senza dirci una parola. Avevamo capito tutti e due quanto tutto quello era folle, allungare la strada di duecento chilometri cambiando tre pullman, marciare sotto il sole cocente per arrivare in quel preciso chiosco davanti alla gare routiere. Sembrava che mi fossi risvegliato da quel giorno, tutto era identico come quando si riaprono le palpebre, stessa Mami ridente, stessi avventori e bambini di strada, stessa puzza di gasolio e urla dal piazzale dei pullman, tutto perfettamente sospeso nel Tempo, soltanto lei non era li. Sono i bambini i primi a riconoscere me e Claus, ci salutano e si ricordano ancora delle fotografie fatte insieme, quando tutti in fila si spingevano per ottenere la posizione migliore davanti agli obiettivi, per poi ridere e indicarsi a vicenda quando si riconoscevano nei display immortalati per sempre. La Mami parla e ride, forse si ricorda di noi ma gli piace prendere in giro tutti ed è inutile cercare di decifrare quel suo codice fatto di risate. Claus racconta che ci ricordavamo benissimo di lei, dei bambini e di quella ragazza timida che era lì insieme a lei a cucinare le omelette, e che eravamo venuti apposta per incontrarla di nuovo. Altre risate da parte sue, si riesce a capire che se volevamo vedere Aida dovevamo aspettare un'po perché era al mercato.

Era un altro dei suoi scherzi perché all'improvviso eccola lì, esattamente come quando quel giorno siamo ripartiti in direzione del confine con il Togo, stesso sguardo timido e curioso, stessa riservatezza e splendore in quegli occhi. Soltanto il vestito era diverso, una lunga tunica a fiori aveva preso il posto di quella maglietta gialla mentre i movimenti non erano cambiati, ne il pudore e il distacco volontario con cui si isolava dal Mondo. In quel momento, più che allora, questa ragazza era il ritratto della Grazia e della femminilità. Si ricordava di me e di Claus, lo si capiva da come ci guardava, ma mai avrebbe dato a uno di noi due il vantaggio di quella situazione, ne noi volevamo rompere quell'equilibrio e quel gioco di ruoli che si era creato. Almeno fino al momento in cui recupero dal mio zaino un rotolo bianco legato con un elastico e glielo consegno. Riluttante ad accettarlo, spinta più dalla curiosità che dalla sua riservatezza, lo apre e si ritrova con la sua fotografia, riflessa nella sua stessa immagine, la stessa che usavamo per le mostre e di cui parlavamo di lei e della sua simpatica collega, in un chiosco di omelettes alla gare routiere di Tenkodogo, nell'estremo est del Burkina Faso.

Questo è quello che ci eravamo prefissati di fare quel giorno insieme a quel gruppo nomade di viaggiatori anomali, ritornare in uno dei luoghi più sperduti del paese soltanto per donare a una ragazza l'Emozione dell'imprevedibilità della Vita, per donargli per un attimo la Gioia inebriante della sorpresa, per omaggiarla di un dono singolare e sincero. I suoi occhi in quel momento erano l'immagine più radiosa che si poteva immaginare, qualcuno era venuto soltanto per lei, soltanto per rendere speciale un istante. Ed è lì che pronunciò quelle che sono le uniche parole che abbia mai sentito dire da lei. Merci

Aida. Ritornando in taxi verso Koupela, per prendere un pullman per Diapaga, ripenso a lei e a quello che è accaduto. Sei mesi dopo, e migliaia di chilometri di distanza, ora quella donna ha un nome, ed è lo stesso di una delle più belle canzoni di Rino Gaetano, una di quelle canzoni che ogni volta che la sento provo gli stessi brividi. Ma per me lei resterà sempre Miss Burkina.


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