domenica 10 novembre 2013

Bon courage AFRICASA! ... storia di un esperienza di volontariato in Africa

Volevo raccontarvi una storia, ma non preoccupatevi, è una di quelle che finiscono con il lieto fine visto che tutti, in fondo, abbiamo bisogno di sorridere e di ricevere un po’ di ottimismo. E’ una di quelle storie ambientate in un luogo esotico e così diverso da questa verde Valle, a venti giorni di viaggio via terra da qui, e in quel continente, l’Africa, così lontano ma al tempo stesso vicino, terra carica di stereotipi, di incomprensioni e di pregiudizi da parte di noi occidentali, ma dove ci si può ancora emozionare per qualcosa che nasce dal cuore. Vi invito quindi a indossare nuovi occhi, a lasciare spazio all’immaginazione e a sognare per qualche minuto. Immaginatevi spettatori a teatro dove tutto il palcoscenico è occupato dal villaggio di Dafo, una bandiera togolese sventola su un’asta fatta con una canna di bambù, la terra è rossa sotto i vostri piedi e il cielo è appena sopra ad un panorama di verdi piante tropicali dove spuntano, qua e là, frutti di mango ed avocado. Donne, uomini e bambini divisi in gruppi, chi a cucinare, chi a chiacchierare, chi a giocare, gruppi che si uniscono tra di loro confondendo così ai vostri occhi i colori accesissimi dei loro vestiti tradizionali. Suoni di risate si alternano a parole incomprensibili in lingua locale, un villaggio africano che, con l’associazione AFRICASA, si è imparato a conoscere e dove sono stati stretti legami di sincera amicizia anche grazie a quell’incontro, nel Gennaio 2010 quando è iniziata questa storia, che ha come protagonista un bene indiscusso: l’acqua.


Dopo aver effettuato il viaggio via terra dall'Italia al Togo per trasportare un pulmino e il materiale donatoci dalla IRCI per costruire la rete idrica, era arrivato il momento, per i volontari dell’associazione AFRICASA, di completare l’opera iniziata con il sopralluogo al villaggio l’anno precedente, a cui ha fatto seguito un progetto tecnico e tutta la fase preventiva per far sì che possa un giorno nascere un acquedotto a Dafo e permettere a tutti, soprattutto donne e bambini, di evitare lunghe camminate e faticosi trasporti d’acqua dalla sorgente al villaggio.


Continuate a usare l’immaginazione e provate a mettermi nei panni di uno dei volontari dell’associazione per vivere appieno quest’emozione in Togo. Tutte le mattine, verso le cinque e mezzo, al villaggio si veniva svegliati dalle urla di una venditrice che passava proprio sotto alla finestra della casa che ospitava i volontari, a cui faceva seguito il rito di recarsi al bidone dell’acqua per lavarsi, più o meno due litri erano sufficienti per una doccia completa, denti compresi. Se ormai siete entrati nella parte avrete capito che, se per procurarsi dell’acqua dovete camminare un chilometro e mezzo in un sentiero ripido e sconnesso, e con una tanica di 30 chili sulla testa, allora si sta molto attenti agli sprechi. Dopo colazione passava il secondo “strillone”, questa volta munito di campanaccio per adunare la gente poiché, per ordine del capo villaggio, tutti dovevano partecipare ai lavori dell’acquedotto. 

Ma all’appello, dipendeva dal giorno, potevano essere in tre oppure in cento visto che a volte c’erano lavori urgenti nei campi o nelle piantagioni, oppure era giorno di mercato, ma il motivo di maggior astensionismo era la partecipazione in massa al funerale di un parente in qualche villaggio vicino poiché, da una parte sono tutti imparentati tra di loro come una grande famiglia, dall’altra la precarietà e le fatalità sono all’ordine del giorno. Capirete da soli che era difficile fare programmi precisi, i lavori da fare erano tanti e poche settimane per terminarli, ma per fortuna i lavori di scavo alla sorgente dell’acqua, nel punto più basso del villaggio per l’alloggio della vasca di raccolta, erano stati portati avanti grazie alla supervisione di Daniele Smoglica, giovane ingegnere torinese e volontario AFRICASA che ha anticipato l’arrivo della “carovana” partita dalla Valmarecchia e che, per tutto il mese d’Agosto, ha deciso che la sua prima volta in Africa sarebbe stato attraverso quest’esperienza di volontariato.  Restavano da costruire la struttura di supporto ai pannelli fotovoltaici, posare le tubazioni idrauliche ed elettriche, ed infine, costruire la vasca da dodici metri cubi che avrebbe permesso, grazie alla pompa ad immersione della IRCI, di spingere l’acqua nelle condutture interrate, risalendo la collina fino a un comodo rubinetto nel villaggio, quasi ottocento metri più lontano.


Ma prima di tutto bisognava comperare i materiali mancanti visto che, a parte l’elettropompa, i cavi e i pannelli fotovoltaici della IRCI portati via terra dall’Italia con il pulmino, il resto andava trovato sul posto, e ovviamente non al villaggio, l’unica speranza poteva essere Lomé, la capitale togolese distante quattro ore di viaggio su piste e strade con buche grandi come crateri. Tra viaggi con il pulmino per recuperare cemento e tubature, l’inizio dei lavori preliminari ed altro, passavano i giorni tra mille incredibili episodi, si lavorava, si rideva, si litigava, insomma si imparava a conoscersi condividendo un progetto, dove spesso e volentieri si doveva ricorrere all’arte dell’arrangiarsi, ed in questo gli africani non hanno rivali, così si usava la ghiaia della strada per fare il calcestruzzo, si abbatteva un albero per fare le casseforme, si usava il bambù per ogni cosa mentre i cacciaviti diventavano trapani e il machete strumento universale, come un coltellino svizzero.

Nel frattempo cresceva in maniera esponenziale l’aspettativa e l’entusiasmo della gente per l’idea di avere un rubinetto nel centro del villaggio, soprattutto le donne e i bambini, consapevoli che ciò avrebbe comportato una fatica in meno per loro, chi ringraziava per la possibilità, chi si metteva a disposizione per dare una mano, tutti incitando continuamente al motto di  bon courage. A dirla tutta c’era quella preoccupazione tipicamente occidentale che per qualche motivo qualcosa andasse storto, magari per un materiale difettoso o addirittura un errore di calcolo in fase di progetto fino a giungere al momento della verità, il giorno in cui si “attacca la spina” per testare se l’impianto funziona, completati quindi gli allacciamenti alla pompa non restava che incrociare le dita. Nel frattempo, mentre alla sorgente venivano completate le operazioni per l’attivazione della pompa manualmente, un bambino andava a controllare se l’acqua arrivasse per la prima volta al villaggio, potete immaginarlo correre su quel sentiero tortuoso tra l’erba alta due metri, felice sia per quella sensazione di festa che si respirava e sia per l’importante impegno che doveva rivestire in quel momento. Minuti di attesa che sembravano ore, i pensieri e le preoccupazioni che si accavallano sono spazzate via da un boato, degno della vittoria dei mondiali del 2006, che copre la distanza di quasi un chilometro dalla sorgente al villaggio: l’acqua è arrivata, ce l’avevamo fatta.
Al ritorno al villaggio, risalendo il sentiero e seguendo la conduttura interrata che trasportava l’acqua, le donne già si accalcavano con i bidoni e le taniche alla fontana, altre cantano canti tradizionali, danze colorite e coinvolgenti fanno da contorno a sorrisi di gioia e nell’aria esplode la festa al suono di percussioni che coinvolge tutti, bambini, adulti e volontari dell’associazione AFRICASA. Ognuno del villaggio ha partecipato alla costruzione, e, come comunità, si sentono ancora più uniti, e il legame con i volontari, anche dopo quest’esperienza, si è ancora maggiormente rafforzato, motivo in più per festeggiare fino a tarda notte.

In quei giorni di festa purtroppo non erano presenti molte persone che hanno reso possibile tutto ciò, ma in quel acquedotto c’è una parte di ognuno di loro. Grande merito va dato alla IRCI e alla famiglia Pula, in primo luogo a Mauro che ha creduto nell’associazione AFRICASA e nei suoi progetti, persone come anche la “togolese” Stefania Sanfilippo che hanno finanziato economicamente e materialmente la costruzione, ma  questa gioia va giustamente condivisa con chi ha lavorato per raggiungere questo splendido risultato, tutta la comunità del villaggio di Dafo e tutti i volontari AFRICASA che hanno curato la fase preliminare dello scavo e che si sono occupati anche dell’allestimento della biblioteca pubblica del villaggio, ringraziando chi ha partecipato al viaggio per trasportare il materiale in Togo, senza dimenticare tutti agli amici che hanno ospitato questa strana “carovana nomade” lungo la strada che separa questa Valle dal villaggio di Dafo in Togo.


“Si chiama Mal d’Africa ed è l’unica malattia dalla quale non voglio guarire”

Toni Bocale - Associazione AFRICASA ONLUS


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